Riccardo Bellofiore ricorda Giorgio Lunghini (24 dicembre 2018)
Sentirete dire e leggerete molte cose su Giorgio Lunghini in questi giorni, tutte giuste. Della sua eleganza, e della sua connaturata gentilezza. Della sua inesauribile cultura letteraria, e della sua profondità filosofica. Della sua notevole capacità espositiva, e della sua critica al pensiero dominante, e non solo.
Proprio per questo lasciatemi dire qualcos’altro che lo rappresenta forse più di quel che precede, e che credo vada pur ricordato proprio in un giorno come questo.
Era un economista, non un filosofo. Un economista che però non ha mai buttato via Marx: il Marx della teoria del valore, il Marx della teoria dello sfruttamento.
Ha sempre insistito sulla necessità di tener ferma la rilevanza rispetto al rigore che riduce il pensiero alternativo in economia alla caccia all’errore, e la necessità di non farsi affascinare da schemi teorici socialmente muti.
Era un economista che in modo sopraffino sapeva tenere insieme l’economia politica critica e la critica dell’economia politica, senza sognarsi di separarle o opporle. E lo sapeva perché guardava all’economico dal punto di vista della totalità, in questo sì il suo essere economista era filosoficamente fondato.
Era, innanzi tutto, un compagno, e a suo modo un militante. Da quando, non lo so, ma certo da prima che lo conoscessi, a metà anni Settanta. Un compagno che sapeva che non si sceglie di (continuare ad) essere militanti. Perché la realtà sociale è dura come un macigno, e da questo punto di vista nulla è cambiato, e la lotta di classe è con noi, violenta come non mai.
Di lui, credo, possiamo dire quello che Napoleoni disse nel 1988 di Sraffa, in una giornata di studi che fu organizzata proprio da Giorgio Lunghini: era soprattutto un comunista.