Europa intrappolata nel labirinto delle regole, interventi di Andrea Boitani e Lucio Landi, lavoce.info, 7 ottobre 2014

Le regole europee sono più complesse e articolate del semplice rispetto di un tetto del 3 per cento di rapporto deficit/Pil. Esistono anche regole sul saldo strutturale, la spesa e il debito. Raccolti in un nuovo dossier gli interventi sul tema. Quando, ai primi di agosto, sono stati diffusi I dati negativi sul Pil italiano nel secondo trimestre 2014, i titoli dei giornali indicavano come principale conseguenza la necessità di una “manovra correttiva” volta a mantenere il rapporto tra deficit e Pil sotto il 3 per cento. Il Presidente del Consiglio si è affrettato a dichiarare che rimarremo sotto il 3 per cento nonostante la recessione e senza manovre. Non interessa tanto chi abbia ragione. Interessa il fatto che tutti pensino che l’unica regola europea da rispettare sia restare sotto il 3 per cento e il paradosso (scarsamente rilevato dalla stampa) che a fronte di una nuova recessione si dovrebbero mettere in atto manovre ulteriormente recessive “per rispettare le regole europee”. Nella tetralogia di pezzi riproposta in questo dossier si cerca di spiegare che le regole europee sono da qualche tempo assai più complesse e articolate del semplice rispetto di un tetto del 3 per cento di rapporto deficit/Pil “nominale”. Innanzitutto, un ruolo cruciale hanno i saldi strutturali per ridurre la pro-ciclicità delle regole. Ma per il calcolo dei saldi strutturali viene utilizzata una metodologia discutibile (e discussa), che finisce per reintrodurre la pro-ciclicità dalla finestra. Sui saldi strutturali si fonda l’intera costruzione del Patto di stabilità e crescita come riformato nel 2011, con tutto il suo armamentario di obiettivi di medio termine (MTO) per ogni paese e di braccio preventivo che entra in azione se l’MTO non viene conseguito, con l’importante qualificazione che i paesi ad elevato debito devono mettere in atto manovre per raggiungere l’MTO anche nelle fasi negative del ciclo: di nuovo pro-ciclicità delle regole. Quello che riguarda il famoso rapporto 3 per cento di deficit/Pil è, invece, il braccio correttivo. A queste regole se ne aggiungono poi altre che riguardano la spesa (per impedirne un uso discrezionale nelle fasi del ciclo e aiutare il conseguimento del MTO) e il debito pubblico, che prevede una riduzione di 1/20 l’anno del rapporto tra debito e Pil se tale rapporto supera il fatidico 60 per cento, sia pure con una complicata serie di clausole di non applicazione delle sanzioni, nei casi in cui i paesi si trovino in fasi recessive. Purtroppo, questo complicato e poco trasparente dedalo di regole non ha certo impedito che le politiche di consolidamento fiscale messe in atto in gran parte dell’Area Euro a seguito della crisi dei debiti sovrani e degli spread tra tassi di interesse dei paesi del Sud e quelli tedeschi producessero effetti negativi sul tasso di disoccupazione, senza peraltro migliorare (e anzi peggiorando) il rapporto tra debito e Pil ed avendo sugli spread effetto molto minore dell’annuncio di Mario Draghi (luglio 2012) di essere pronto a fare whatever it takes per salvare l’Euro. È chiaro ormai (anche agli economisti più “ortodossi”) che con queste regole europee - e con i limiti che la politica monetaria ha quando i tassi di interesse nominali sono già a zero e pende la minaccia di “scomunica” da parte della Corte Costituzionale tedesca – muore tutta l’Eurozona e non solo i soliti reietti paesi del Sud. Sembra chiaro che l’uscita dalla recessione passa per una politica di espansione della domanda condotta a livello europeo, sia essa costituita dalla nascita di un nucleo di bilancio federale europeo per sostenere una sistema continentale di sussidi ai disoccupati o da una aumento di spesa per investimenti pubblici soprattutto in infrastrutture tecnologiche e in ricerca, istruzione e innovazione, o da una riduzione coordinata tra tutti i paesi della pressione fiscale. E forse sta diventando chiaro che il mito (e la retorica) delle “riforme” supply side non aiutano a far uscire dalla crisi un intero continente, se arrancano sia i paesi che le riforme le hanno fatte sia quelli che non le hanno fatte. Il che non significa che le riforme non vadano fatte per rendere possibile che tutta l’Europa (e soprattutto il suo Sud) – uscita dalla recessione – si ponga su un sentiero di crescita stabile e sostenibile. Ma forse sarebbe opportuno fermarsi a ragionare su quali riforme siano veramente utili e urgenti e quali siano inutili, quali addirittura dannose o semplicemente meno urgenti.

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