PIERFRANCO PELLIZZETTI – Ichino e lo scalpo dell’art. 18, tratto da Micromega online, 22 settembre 2014

Sotto l’incalzare di un furente Maurizio Landini, ieri sera molti telespettatori de la Sette hanno potuto prendere visione della vera faccia di Pietro Ichino, con annesso baffo modello Groucho Marx, che sino ad allora avevano ritenuto un’icona astratta tendente al caricaturale dell’antico migliorismo milanese (i liberisti dell’allora PCI subalterni a Bettino Craxi e finanziati dal suo ufficiale pagatore di allora: Silvio Berlusconi); oggi alleato con gli ex rutelliani raccolti attorno al premier per dare prova di sottomissione alle plutocrazie nazionali e non, macellando una classe lavoratrice che potrebbe rivelarsi “ceto pericoloso” per i disegni di ricastalizzare la società nel nuovo feudalesimo prossimo venturo, in cui i signoraggi non discendono più dal sangue ma dal possesso (rendite di posizione).

PIERFRANCO PELLIZZETTI – Ichino e lo scalpo dell’art. 18

Sotto l’incalzare di un furente Maurizio Landini, ieri sera molti telespettatori de la Sette hanno potuto prendere visione della vera faccia di Pietro Ichino, con annesso baffo modello Groucho Marx, che sino ad allora avevano ritenuto un’icona astratta tendente al caricaturale dell’antico migliorismo milanese (i liberisti dell’allora PCI subalterni a Bettino Craxi e finanziati dal suo ufficiale pagatore di allora: Silvio Berlusconi); oggi alleato con gli ex rutelliani raccolti attorno al premier per dare prova di sottomissione alle plutocrazie nazionali e non, macellando una classe lavoratrice che potrebbe rivelarsi “ceto pericoloso” per i disegni di ricastalizzare la società nel nuovo feudalesimo prossimo venturo, in cui i signoraggi non discendono più dal sangue ma dal possesso (rendite di posizione).

Preceduto in mattinata da una sempre più soave viperetta Barbara Serracchiani (specializzata in perfidie pronunciate con quell’aria da madonnina infilzata), che aveva lanciato il tema, ora il giuslavorista di lorsignori ripeteva il refrain: “le multinazionali non investono in Italia perché hanno terrore dell’articolo 18”.

Dunque, gli stranieri non scappano perché l’immagine all’estero del nostro Paese è quella delle montagne di spazzatura di Napoli o dei magistrati ammazzati nell’area vasta controllata dalle malavite organizzate, non perché ci presentiamo in Europa e nel modo come una repubblica delle banane dove imperano i cacicchi ridicoli (dal Berlusconi che fa le corna ai selfie di Renzi nell’avvio della presidenza semestrale italiana in Ue), non perché difettano partner tecnologici su piazza, come confermano le imbarazzanti collocazioni dei nostri Atenei nei ranking internazionali. Niente di tutto questo. Il mitico investimento dei mitici mercati latita per quella manciata di casi annuali in cui un lavoratore ha contrastato la decisione della dirigenza d’impresa di “buttarlo fuori” per ragioni illegittime.

Ridicolo. Ma la vera ragione – come replicava tra uno sbuffo di fumo e l’altro Landini – è un’altra; simbolica: esibire lo scalpo del sindacato a chi di dovere, come garanzia che le cose sono state rimesse a posto e in futuro nessuno oserà più disturbare il manovratore. Mentre qualche briciola di benevolenza scivolerà giù dal tavolo dei manovratori (finanzieri e speculatori travestiti da manager alla Marchionne) a gratificazione degli uomini di mano che si sono impegnati nell’apprezzato servizio. Uomini di mano che poi sono sempre gli stessi da decenni; in buona parte d’area milanese o padana in genere. Espressione del provincialismo tracotante di una cultura locale che si presume all’avanguardia recependo – spesso fuori tempo massimo – le parole d’ordine alla moda; che nel mondo sono diventate da tempo mainstream.

I tipi che si raccolsero sotto le bandiere anti articolo 18 dell’asse Confindustria – Forza Italia e stesero nel 2002 il furbastro libello collettivo “Non basta dire no!” (guarda caso, editato dalla berlusconiana Mondatori): i modernisti retroversi Franco Debenedetti, Giancarlo Lombardi, Nicola Rossi, Michele Salvati e – ovviamente – il baldo Ichino. Mentre si aggregava al gruppo l’attuale ministeriale Enrico Morando, il mandrogno con la faccia del comico D’Angelo (anche se è il politico quello che fa ridere di più).

Operazione vergognosa, a cui fece subito da sponda Giuliano Ferrara con il suo house organ di Casa Arcore. Che purtroppo (come ora utilizza al meglio il neomigliorista, neorutelliano e molto berlusconiano soft Matteo Renzi, passato all’attacco con l’esibizione di tutta la sua bullesca muscolarità verbale) già a quel tempo poteva giocarsi un atout non da poco: l’avvenuta trasformazione di buona parte del personale dirigente sindacale in generone della nomenclatura politica. Carrieristi travestiti da metalmeccanici durante le manifestazioni sindacali, per poi rientrare rapidamente al caldo dei loro ozi di Capua garantiti da privilegi castali. Ma qui non si parla di scalpo della Camuso o di Bonanni (tecnicamente più difficile il caso di Angeletti Lex Luthor). Qui si parla del mondo del lavoro.

L’ultima barriera contro il disegno di spaccare la società tra una minoranza di avvantaggiati e moltitudini di impoveriti/precarizzati costretti al silenzio. Il tutto al grido dei nuovi Templari: “il Mercato lo vuole!”.

Pierfranco Pellizzetti

(22 settembre 2014)

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