Sette punti per gli “Stati Uniti d’Europa”, Keynes blog, 21 febbraio 2013

Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo l’articolo del prof. Paolo Pini, ordinario di Economia politica all’Università di Ferrara sulla crisi europea e la possibile via d’uscita rappresentata dall’ipotesi federale degli “Stati Uniti d’Europa”. L’articolo del prof. Pini ha il pregio, non indifferente, di mettere in fila sette punti per creare un’Europa federale e marcatamente “keynesiana”, rispetto a programmi di partito spesso confusi o contraddittori. Il problema, tuttavia, ci pare tutto politico, non economico. Come debba funzionare uno stato federale lo sappiamo dalla teoria economica e dall’esperienza storica, soprattutto quella degli Stati Uniti. Si tratterebbe quindi di convincere i paesi del “core” (Germania in primis) a invertire la rotta sin qui seguita: riforma della BCE, revoca del Fiscal compact (o almeno sua sostanziale revisione), ampio bilancio federale e relativo deficit, eurobond, eccetera. Qui il problema è profondo e non riguarda solo i politici, ma gli elettori. Sarebbe infatti illusorio pensare che un eventuale (e tutto da conquistare) cambio alla guida della Germania sia sufficiente a produrre l’inversione di rotta, considerando anche il profilo del candidato dell’SPD e il fatto che gli stessi socialdemocratici sono gli inventori della linea “neomercantilista” tedesca. Convincere i contribuenti tedeschi della necessità di ingenti trasferimenti è un compito tutt’altro che banale. Qualche speranza in più si può forse nutrire negli avvenimenti in corso: il progressivo deterioramento delle condizioni dell’economia della Germania (di cui si intravedono evidenti segni) sta già ammorbidendo la linea di austerità nella Commissione UE. E tuttavia ciò è ancora largamente insufficiente. Il tutto in un quadro in cui l’UE ha per la prima volta tagliato il suo già magrissimo bilancio federale. Se tutto ciò è vero, e ci pare che lo sia, la politica (avanziamo modestamente questa ipotesi) dovrebbe seriamente interrogarsi su una possibile trasformazione dell’euro in una “moneta comune” e non più “unica”. Vale a dire modificare l’euro in una unità di conto per gli scambi intra-UE, rifacendosi al Bancor ideato da Keynes. O, in alternativa, dovrebbero essere implementati efficaci sistemi di ribilanciamento delle partite correnti basati sull’inflazione nei paesi con eccesso di esportazioni verso l’eurozona. Se si vuole salvare l’Europa il tempo non è infinito. La sofferenza a cui sono sottoposti i paesi periferici ha raggiunto i limiti della sopportabilità e nel caso della Grecia li ha ampiamente superati. Non si può continuare a invocare la “solidarietà” e l’ “equità” che non arrivano mai. In tutto ciò l’Italia potrebbe avere un ruolo chiave. Il nostro paese, infatti, è forse l’unico tra i PIIGS che può ancora minacciare in modo credibile la Germania per ottenere almeno una parte di quelle riforme strutturali che Pini indica nel suo articolo e per incominciare a introdurre l’ipotesi di un euro-bancor. Non ci pare di aver scorto qualcosa del genere nell’agenda politica dei maggiori candidati alle elezioni del 24-25 febbraio. Si può comunque nutrire la speranza che questa consapevolezza maturi confrontandosi con i fatti, senza tuttavia dimenticare che è possibile persino il processo inverso, come accaduto al presidente francese Hollande. Buona lettura.
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